Appartenenza
Vino rosso, purpureo, come il sangue che pompa forte, pulsa
nelle vene e sgorga impetuoso nel desiderio, nell’attesa che tende i muscoli,
come un arco pronto a scoccare la freccia.
Stivali neri come la notte, da baciare, lucidare, bramando
il sapore dei piccoli piedi morbidi e caldi racchiusi nello scrigno di un
sogno.
Il suo sguardo fiero, severo, il barlume di un sorriso che
invita e si compiace, solo un accenno, un gesto lieve, sussurrato, la grazia e
l’eleganza della Dea che si concede allo sguardo adorante dei suoi devoti.
Poche gocce tinsero il parquet, poche gocce brillarono
accanto alla punta del suo stivale. Poche gocce che saggiai con la punta della
lingua, mentre il suo tacco graffiava la mia schiena.
Saggiai il nettare tra le sue cosce, un fiore umido che
schiudeva i propri petali, offrendosi alla carezza della mia lingua.
La sentii gemere e bagnarsi, strofinai la bocca e il viso
sul suo sesso, volevo che il suo odore mi restasse addosso, lo volevo su di me,
dentro me, come un segno indelebile del suo piacere e della mia appartenenza.
Sì, era questo ciò che volevo, essere suo, oltre ogni limite,
incondizionatamente.
Godevo della sua eccitazione, soddisfatto e inappagato per i
suoi orgasmi, per il modo in cui gemeva e sussultava.
Il mio piacere era subalterno al suo e legato ad esso
indissolubilmente. Con passione continuavo a baciarla e leccarla, piegandomi
docilmente alle sue voglie, finché lei non ne aveva abbastanza e mi spingeva
via, contemplando il mio desiderio.
Il suo piede tornò a calcare il mio capo, col tacco, seguii
il contorno del mio volto. Lo baciai, lo succhiai, leccai la suola, vinto e
annientato, in balia del suo volere.
Lei sapeva, conosceva la follia del mio desiderio. Avrei
fatto qualsiasi cosa pur di sfiorare la nudità dei suoi piedi, per poter
sentire il tepore della sua pelle. Ma per nulla al mondo me lo avrebbe
concesso. Io ero lì per lei, per divertirla, soddisfarla. Più il mio desiderio
cresceva, più lei lo disilludeva. I suoi piedi erano il Paradiso verso cui
tendere espiando i miei peccati.
Le sue dita accarezzarono le mie natiche, le esplorarono
sapientemente, seguendo i fremiti del mio respiro. Un brivido, l’attesa, poi un
leggero fastidio che poco a poco si tramutò in piacere, travolgendomi, mentre
lei mi possedeva.
Mi penetrò con tocco deciso, indugiando alcuni istanti,
prima di far scorrere il dito per condurmi all’estasi, così come ella voleva,
così come lei solo poteva, Signora assoluta di ogni mia brama che governava i
miei sensi piegandoli ad ogni suo capriccio. E così, fui suo, così le offrii il
tributo della mia passione.
Lasciai che mi possedesse come nessun’altra aveva mai fatto
prima di lei, fremendo mentre il mio seme sgorgava copioso ai suoi piedi,
pronto a invocare ancora su di me il loro passo dolce e implacabile perché
continuasse a segnarmi, a marchiarmi.
Appartenere, quale pensiero più dolce di questo. Un’emozione
da sussurrare in un bacio, godendo di un sogno che vibra sulle membra tese.