venerdì 18 aprile 2014

Appartenenza 

Vino rosso, purpureo, come il sangue che pompa forte, pulsa nelle vene e sgorga impetuoso nel desiderio, nell’attesa che tende i muscoli, come un arco pronto a scoccare la freccia.
Stivali neri come la notte, da baciare, lucidare, bramando il sapore dei piccoli piedi morbidi e caldi racchiusi nello scrigno di un sogno.
Il suo sguardo fiero, severo, il barlume di un sorriso che invita e si compiace, solo un accenno, un gesto lieve, sussurrato, la grazia e l’eleganza della Dea che si concede allo sguardo adorante dei suoi devoti.
Poche gocce tinsero il parquet, poche gocce brillarono accanto alla punta del suo stivale. Poche gocce che saggiai con la punta della lingua, mentre il suo tacco graffiava la mia schiena.
Saggiai il nettare tra le sue cosce, un fiore umido che schiudeva i propri petali, offrendosi alla carezza della mia lingua.
La sentii gemere e bagnarsi, strofinai la bocca e il viso sul suo sesso, volevo che il suo odore mi restasse addosso, lo volevo su di me, dentro me, come un segno indelebile del suo piacere e della mia appartenenza. Sì, era questo ciò che volevo, essere suo, oltre ogni limite, incondizionatamente.
Godevo della sua eccitazione, soddisfatto e inappagato per i suoi orgasmi, per il modo in cui gemeva e sussultava.
Il mio piacere era subalterno al suo e legato ad esso indissolubilmente. Con passione continuavo a baciarla e leccarla, piegandomi docilmente alle sue voglie, finché lei non ne aveva abbastanza e mi spingeva via, contemplando il mio desiderio.
Il suo piede tornò a calcare il mio capo, col tacco, seguii il contorno del mio volto. Lo baciai, lo succhiai, leccai la suola, vinto e annientato, in balia del suo volere.
Lei sapeva, conosceva la follia del mio desiderio. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di sfiorare la nudità dei suoi piedi, per poter sentire il tepore della sua pelle. Ma per nulla al mondo me lo avrebbe concesso. Io ero lì per lei, per divertirla, soddisfarla. Più il mio desiderio cresceva, più lei lo disilludeva. I suoi piedi erano il Paradiso verso cui tendere espiando i miei peccati.
Le sue dita accarezzarono le mie natiche, le esplorarono sapientemente, seguendo i fremiti del mio respiro. Un brivido, l’attesa, poi un leggero fastidio che poco a poco si tramutò in piacere, travolgendomi, mentre lei mi possedeva.
Mi penetrò con tocco deciso, indugiando alcuni istanti, prima di far scorrere il dito per condurmi all’estasi, così come ella voleva, così come lei solo poteva, Signora assoluta di ogni mia brama che governava i miei sensi piegandoli ad ogni suo capriccio. E così, fui suo, così le offrii il tributo della mia passione.
Lasciai che mi possedesse come nessun’altra aveva mai fatto prima di lei, fremendo mentre il mio seme sgorgava copioso ai suoi piedi, pronto a invocare ancora su di me il loro passo dolce e implacabile perché continuasse a segnarmi, a marchiarmi.
Appartenere, quale pensiero più dolce di questo. Un’emozione da sussurrare in un bacio, godendo di un sogno che vibra sulle membra tese.